Huffington Post, Urbano: Il comparto della vigilanza privata di nuovo nel dimenticatoio
La fisica contemporanea ci spiega che la freccia del tempo, ossia l’ordinato scorrere degli eventi in una sequenza temporale unidirezionale, è solo una convenzione che ci aiuta a rendere semplice ciò che altrimenti sarebbe assai poco comprensibile per chi non ha avuto la costanza di addentrarsi nell’esplorazione delle leggi della natura.
Ebbene, a volte si ha l’impressione che la nostra Pubblica Amministrazione e la nostra politica, in un moto rivoluzionario altrimenti per loro innaturale, vogliano sottrarsi al comune sentire e provare a curvare la freccia del tempo sino ad arrotolarla su se stessa, tanto e tanto da sperare di fermarla. Non so se effettivamente alla radice del non-evento che intendo commentare vi sia stato un tale esperimento, ma il risultato è che ci troviamo di nuovo, di nuovo, allo stesso punto di partenza in cui eravamo 10 anni orsono.
Ma andiamo con ordine.
Da circa 15 giorni, ovvero dal 30 giugno scorso, è scaduta la proroga che va avanti dal febbraio 2012 con la quale, in attesa dell’attivazione dei corsi teorico-pratici da parte del Viminale (corsi il cui superamento è necessario per l’abilitazione delle guardie giurate al servizio di anti-pirateria sul naviglio mercantile battente bandiera italiana), le gpg “che non abbiano ancora frequentato i predetti corsi […] qualora abbiano partecipato per un periodo di almeno sei mesi, quali appartenenti alle Forze armate, alle missioni internazionali in incarichi operativi” possono essere impiegate a bordo delle navi per la difesa da atti di pirateria.
Il ministero dell’Interno, insomma, si è nuovamente dimenticato del comparto della vigilanza privata, in particolare del servizio antipirateria a tutela del nostro naviglio e del personale su questo imbarcato, finalizzato al contrasto di attività criminose che spesso si caratterizzano per una significativa gravità.
Servizio che, dopo il grave incidente che coinvolse i nostri marò in India, viene oramai svolto esclusivamente da nostro personale appositamente formato e qualificato. Cosa sta succedendo quindi in questo momento sulle nostre navi commerciali costrette a percorrere rotte in zone considerate a rischio pirateria dall’ONU?
Da più di qualche giorno queste sono totalmente esposte a qualsiasi tipo di pericolo o assalto da parte di pirati che, pur avendo perso l’avventuroso fascino di un Barbanera o di un Henry Morgan, tuttora infestano la zona del Corno d’Africa o del mare della Nigeria, solo per citarne due. Gli armatori che non intendono esporre navi e personale di bordo a rischi di cui peraltro rispondono a norma delle leggi nazionali, e che sino al 30 giugno si servivano dei servizi di aziende italiane, sono ora costretti a rivolgersi a società estere, con buona pace di fatturati, PIL e tasse in Italia. Se non proprio dell’orgoglio tricolore, a difesa del quale restano, e ci sta bene, i ragazzi di mister Mancini.
Il Viminale, sollecitato in proposito, fa sapere che sono consapevoli del problema e che stanno tentando di risolverlo, ma che non riescono a trovare un provvedimento adatto nel quale inserire un emendamento, senza il rischio che esso venga dichiarato inammissibile per estraneità di materia.
Possibile che il problema non sia stato posto in fase di redazione di uno dei tanti decreti-legge ora in esame in fase di conversione alle Camere? Possibile che nessun dirigente del Ministero abbia un calendario delle scadenze che consenta di programmare per tempo gli interventi normativi? Perché, tanto, sperare che il problema venga risolto in maniera strutturale e definitiva appare un esercizio di ottimismo che francamente risulta fuori luogo…
La parola resilienza, di cui si è certamente abusato durante la fase peggiore della pandemia, è evidentemente il mantra delle nostre aziende. Ma a tutto c’è un limite e, quando la misura è colma, le aziende gettano la spugna e, se possono, delocalizzano all’estero. Come biasimarle.
Maria Cristina Urbano