Lavoro, INAPP: “Ripresa con il freno a mano tirato, pesano i bassi salari, scarsa produttività, poca formazione”
Alla Camera dei Deputati è stato presentato il Rapporto 2023 dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche
· Tra il 1991 e il 2022 i salari reali sono rimasti pressoché invariati con una crescita dell’1%;
· Divario produttività con altri Paesi G7 pari al 25,5%;
· Numero di assunzioni nel 2022: 414mila nuove attivazioni nette a fronte di 713mila nel 2021 ma saldo positivo di 550mila
occupati nell’ultima rilevazione Istat rispetto a gennaio 2020;
· Una “forza lavoro” anziana: ogni 1.000 lavoratori di 19-39 anni ci sono ben 1.900 lavoratori adulti, nella PA a fronte di un lavoratore giovane ce ne sono 4 anziani;
· Il fenomeno delle “grandi dimissioni” nel nostro Paese sono oltre 3,3 milioni di persone che hanno pensato di lasciare il proprio posto di lavoro;
· Più della metà delle imprese (54%) dichiara di aver assunto nuovo personale dipendente, ma solo il 14% grazie agli incentivi statali
· Formazione continua viene utilizzata solo dal 9,6% della popolazione
FADDA: “Dopo la crisi pandemica le dinamiche del mercato del lavoro hanno ripreso a crescere, ma con rallentamenti dovuti sia a fattori esterni, dal conflitto bellico alle porte dell’Europa, alla crescita dell’inflazione e della crisi energetica, ma anche a fattori interni, come il basso livello dei salari che si lega alla scarsa produttività e alla poca formazione. Occorrono degli interventi mirati e celeri capaci di indirizzare il mercato del lavoro verso una crescita più sostenuta, che non può prescindere dalla rivoluzione tecnologica e digitale che sta modificando i processi produttivi”.
Roma, 14 dicembre 2023 – Dopo la crisi generata dalla pandemia il mercato del lavoro italiano ha ricominciato a crescere ma questo percorso appare “accidentato” dalle criticità strutturali che lo caratterizzano: bassi salari, scarsa produttività, poca formazione e un welfare che fatica a proteggere tutti i lavoratori, non avendo alcun paracadute per oltre 4 milioni di lavoratori ‘non standard’ dagli autonomi, a chi è stato licenziato o è alla ricerca di un’occupazione, passando per i lavoratori della gig economy fino ai cosiddetti working poors. In più sta emergendo sul fronte dell’utilizzo della forza lavoro il fenomeno del labour shortage: la difficoltà delle imprese a coprire i posti vacanti, allargandosi sempre più così la forbice del matching tra domanda e offerta di lavoro.
Sono questi alcuni degli argomenti sviluppati nel Rapporto Inapp 2023, composto di 4 capitoli per 260 pagine, che sono stati presentati questa mattina a Montecitorio dal presidente dell’Istituto, prof. Sebastiano Fadda.
“Dopo la crisi pandemica le dinamiche del mercato del lavoro hanno ripreso a crescere ma con rallentamenti dovuti sia a fattori esterni, dal conflitto bellico alle porte dell’Europa, alla crescita dell’inflazione e della crisi energetica, ma anche – ha spiegato il presidente dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche – a fattori interni, come il basso livello dei salari che si lega alla scarsa produttività, alla poca formazionee agli incentivi statali per le assunzioni che non hanno portato quei benefici sperati, se pensiamo che più della metà delle imprese (il 54%) dichiara di aver assunto nuovo personale dipendente, ma solo il 14% sostiene di aver utilizzato almeno una delle misure previste dallo Stato. Occorrono quindi degli interventi mirati e celeri capaci di indirizzare il mercato del lavoro verso una crescita più sostenuta, che non può prescindere dalla rivoluzione tecnologica e digitale che sta modificando i processi produttivi.”
IL PROBLEMA DELLA QUESTIONE SALARIALE
Tra il 1991 e il 2022 – si legge nel Rapporto Inapp – i salari reali sono rimasti pressoché invariati, con una crescita dell’1%, a differenza dei Paesi dell’area Ocse dove sono cresciuti in media del 32,5%. In particolare, nel solo 2020 (terzo nell’anno della pandemia da Covid-19) si è registrato un calo dei salari in termini reali del -4,8%. In quest’anno si è registrata anche la differenza più ampia con la crescita dell’area Ocse con un -33,6%. Accanto a questo problema si è sviluppato anche quello della scarsa produttività: a partire dalla seconda metà degli anni Novanta la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, segnando un divario massimo nel 2021 pari al 25,5%.
NUOVE ASSUNZIONI IN CALO NEL 2022 RISPETTO AL BOOM DI FINE PANDEMIA MA SALDO POSITIVO OCCUPAZIONALE ATTUALE RISPETTO A GENNAIO 2020
Il numero di assunzioni nel 2022 è peggiorato rispetto al 2021: 414milanuove attivazioni nette nel 2022 a fronte di 713mila nel 2021. Si conferma un numero di attivazioni maggiore per la componente maschile (54% rispetto al 46% delle donne) mentre la categoria dei giovani, dopo essere stata colpita profondamente dalla pandemia e dalla precedente crisi del 2008, conferma il recupero di quote occupazionali: il 26% delle attivazioni del 2022 si concentra nella fascia dai 25 ai 34 anni, a seguire le quote dei 35-44enni (21%) e dei 45-54enni (20%).
LA “FORZA LAVORO” SEMPRE PIU’ ANZIANA
A questi aspetti se ne aggiunge un altro, di carattere demografico: l’invecchiamento della popolazione e della forza lavoro. Mentre nel 2002 ogni 1.000 persone che avevano un’età compresa tra 19 e 39 anni ce n’erano poco più di 900 aventi 40-64 anni, nel 2023 quest’ultimo valore ha superato le 1.400 unità. Ogni 1.000 lavoratori di 19-39 anni ci sono ben 1.900 lavoratori adulti-anziani. Il settore che di gran lunga ha i lavoratori più anziani è quello della pubblica amministrazione (3,9 lavoratori anziani ogni lavoratore giovane), seguito dal settore finanziario e assicurativo.
LE GRANDI DIMISSIONI, UN FENOMENO ANCHE ITALIANO
Appare rilevante il numero di occupati chemostrano l’intenzione di lasciare il proprio lavoro. Si stima che il 14,6% degli occupati tra i 18 e i 74 anni (oltre 3,3 milioni di persone) abbia pensato di dimettersi. Tale quota è composta da un 1,1% che lo farebbe anche se ci fosse una riduzione del tenore di vita e da un 13,5% che farebbe questa scelta solo se trovasse altre entrate economiche. Le quote più alte di chi ha intenzione di dimettersi, a prescindere dalla motivazione, si osservano in corrispondenza degli occupati con un diploma (18,9%), diminuiscono col crescere dell’anzianità anagrafica e delle dimensioni del comune di residenza. A volersi dimettere sono maggiormente gli occupati dipendenti, operanti nelle organizzazioni di media dimensione (15-49 addetti) e che svolgono la loro attività in imprese private. Nel pubblico l’1,5% dei lavoratori (contro l’1% del privato) lo farebbe anche se questo comportasse una riduzione del tenore di vita. Il desiderio di cambiare occupazione è maggiore per chi svolge lavori più faticosi e poco soddisfacenti.
LE AGEVOLAZIONI PER LE ASSUNZIONI NON FUNZIONANO, DONNE SEMPRE PENALIZZATE
Un’esigua percentuale di aziende (4,5%) sostiene che l’introduzione del programma di incentivazione è stato importante ai fini delle loro decisioni di assunzione. La probabilità di ricorrere a uno o più schemi di incentivazione all’occupazione è maggiore del 50% per le imprese di grandi dimensioni (con più di 250 addetti), mentre si riduce sensibilmente raggiungendo il 24%per le microimprese. Le imprese del Mezzogiorno sono molto più propense a utilizzarle: circa il 38% delle imprese del Sud e il 36% di quelle localizzate nelle Isole dichiara di aver usato almeno un incentivo, contro il 20% (in media) delle aziende localizzate nelle altre aree. In generale, forme di agevolazione hanno interessato quasi 2 degli oltre 8 milioni di nuovi contratti attivati nel 2022, ovvero il 23,7%. L’incentivo più utilizzato è stata la Decontribuzione Sud che ha riguardato il 65% dei nuovi contratti, seguito dall’Apprendistato (20%) e dagli incentivi rivolti a target specifici: Esonero giovani con il 4,7% e Incentivo donne, che ha inciso per il 4,8% sull’occupazione totale. Nonostante la pluralità di incentivi in campo, nessuno di questi istituti è riuscito ad attivare almeno il 50% di donne. Dunque, la composizione e il relativo squilibrio di genere restano immutati. Inoltre, il 58,5% delle assunzioni agevolate delle donne è a tempo parziale, contro il 32,2% degli uomini. Il ricorso agli incentivi, quindi, riproduce lo scenario noto di un’occupazione femminile minore per quantità (le donne sono il 40,9% delle assunzioni agevolate) e con minori ore lavorate.
L’APPRENDISTATO VA RIVITALIZZATO
Per quanto attiene il work based learning, resta confermato l’impegno dell’Italia a rivitalizzare l’apprendistato duale nei percorsi di IeFP di competenza regionale. Tuttavia, l’apprendistato duale continua ad avere una scarsa capacità di attrazione nei confronti delle imprese e dei giovani. Il peso dell’apprendistato duale, infatti, rimane residuale attestandosi tra il 3%e il 4% del totale degli apprendisti in formazione. Si conferma, inoltre, la tendenza alla concentrazione degli apprendisti per la qualifica e il diploma professionale in alcune macroaree e in un numero molto limitato di territori: la PA di Bolzano e la Lombardia raccolgono da sole tra il 78%e l’83% degli apprendisti in formazione. Il perpetuarsi di queste disuguaglianze è la spia di divari strutturali mai risolti e introduce un ulteriore elemento di freno nell’aumento dell’utilizzo dell’apprendistato duale. Inoltre, a differenza di altri Paesi europei, in Italia si continua a registrare lo scarso utilizzo dell’apprendistato per l’alta formazione e la ricerca. Nel 2021 il numero di apprendisti inseriti nei percorsi per il conseguimento di un titolo di istruzione terziaria era di 609 unità, in calo rispetto all’anno precedente. Anche in questo caso si registra una notevole concentrazione territoriale degli apprendisti in formazione.
FORMAZIONE CONTINUA SOLO PER IL 9,6% DEI LAVORATORI
Rispetto alla formazione continua si confermano i bassi livelli di partecipazione degli individui agli interventi formativi. La popolazione adulta di età compresa tra 25 e 64 anni che ha partecipato ad attività di istruzione e formazione è stata infatti nel 2022 pari al 9,6%. È una quota che denota comunque un avanzamento consistente rispetto al 2020 (+2,4%), ma che allontana l’Italia dall’Europa: nel confronto con il corrispondente valore medio europeo (11,9%), il nostro Paese perde terreno (-2,3%) rispetto all’avanzamento registrato l’anno precedente.
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Fonte: INAPP