Huffpost, Maria Cristina Urbano: Tutti i punti critici del Decreto Semplificazioni
Dopo un’attesa di diversi giorni rispetto la sua approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, sulla Gazzetta Ufficiale di giovedì scorso è stato finalmente pubblicato il Decreto-legge cosiddetto Semplificazioni.
Dico finalmente perché il comparto della vigilanza privata attendeva da tempo un provvedimento che andasse in questa direzione e il nostro augurio è che il governo apra una fase di consultazioni con le parti sociali maggiormente rappresentative per poterne definire meglio il perimetro e far sì che, in fase di conversione in legge, il Decreto acquisisca l’indispensabile incisività.
Tanto più che, se da una parte è assolutamente condivisibile l’idea alla base del provvedimento, ovvero quella di semplificare alcuni processi, tuttavia l’impianto complessivo dell’articolato mostra numerose criticità, anche per quanto riguarda le previsioni in deroga al codice dei Contratti Pubblici.
A partire dall’articolo 1 le conseguenze del nuovo provvedimento potrebbero essere, infatti, assai problematiche per tutto il comparto degli istituti di vigilanza privata e servizi fiduciari, facendo venire meno il lavoro fatto negli ultimi anni in termini di riqualificazione del settore, riconosciuto da ultimo nel Decreto-legge Sblocca cantieri dello scorso anno, con il quale si vietava l’assegnazione degli appalti di servizi labour intensive (come il nostro) mediante il ricorso al criterio del massimo ribasso.
Con il DL Semplificazioni si torna indietro, a una realtà che si sperava definitivamente superata: il comma b) dell’art. 2, prevede che la stazione appaltante possa decidere, nel caso di procedura negoziata, se applicare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa o il massimo ribasso. Tale previsione rivela appieno la sua gravità se letta in combinato disposto con l’articolo 2, comma a) del decreto legislativo 50 del 2016 (il Codice dei Contatti Pubblici), perché significa che gli affidamenti diretti per il comparto che rappresento potrebbero andare ben oltre i 150.000 euro indicati, potendo bensì arrivare fino alla soglia dei 750.000 euro.
Il tutto a discrezione della stazione appaltante, alla quale non è posto neppure il divieto di scindere la stessa gara d’appalto in più lotti, così da poter procedere, alla bisogna, esclusivamente con affidamenti diretti. Viene così assegnato a chi bandisce la gara un potere discrezionale enorme, che rischia molto concretamente di distorcere il mercato e di restringerlo ancora di più, come se non fosse stato già depresso dalle continue crisi economiche degli ultimi anni e dal recente tsunami Covid-19.
In un sol colpo, il legislatore sembra esser tornato indietro di più di un anno modificando ancora una volta quello che è un vero e proprio nodo cruciale degli affidamenti per i servizi ad alta intensità di manodopera, vale a dire l’obbligo di dover procedere esclusivamente con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Dopo essere riusciti a ottenere l’importante modifica in tal senso, ci si ritrova improvvisamente in un limbo in cui pare che le stazioni appaltanti possano discrezionalmente decidere di aggiudicare anche un servizio di vigilanza (ma così è per tutti i servizi labour intensive) con il criterio del massimo ribasso. Il condizionale è d’obbligo alla luce della poca chiarezza della norma, tuttavia è fondamentale notare detto peculiare profilo soprattutto per i risvolti dirompenti che ne potrebbero derivare.
Vale ricordare in proposito che il comparto degli istituti di sicurezza privata è composto da diverse centinaia di imprese che sono in grado di gestire gare d’appalto da qualche centinaio di migliaia d’euro, ma da un numero significativamente minore quando le cifre si avvicinano o superano il milione.
Nel momento in cui certamente sotto i 150.000 euro, ma potenzialmente anche fino a 750.000, il provvedimento prevede l’affidamento diretto tour court e sopra tale soglia il ricorso alla gara a invito, dal mercato della sicurezza rischiano di essere escluse tante piccole e medie aziende che, o non risultano sufficientemente in evidenza presso le strutture amministrative pubbliche sui territori e quindi non riescono ad inserirsi nei bandi minori, o non possiedono i requisiti finanziari e organizzativi per poter concorrere, con l’ipotesi di vincerli, in appalti più grandi.
L’iniziativa economica privata è libera, come afferma la Costituzione italiana, e quindi nulla vieta alle imprese di riorganizzarsi alla luce di queste nuove disposizioni, tuttavia si tratta di disposizioni provvisorie, in attesa di una riforma complessiva del Codice degli Appalti più volte annunciata dalla maggioranza di governo.
E allora quante saranno le aziende capaci di sostenere gli oneri finanziari e organizzativi necessari a sopravvivere al nuovo, contingente, scenario di mercato? In questo momento di assoluta incertezza, poi, dove persino gli analisti più navigati e le più importanti istituzioni finanziarie nazionali ed internazionali fanno fatica a delineare gli scenari di medio periodo. Poche, tendenzialmente quelle con capacità finanziarie maggiori, quindi le più grandi.
Inoltre vi è il rischio concreto di tornare a quella macelleria sociale provocata dal criterio del massimo ribasso cui, con questo decreto, la pubblica amministrazione può di nuovo ricorrere in caso di appalti ad alta intensità di mano d’opera, come quelli della sicurezza, sia armata che disarmata.
Un altro discorso, ancora più ampio, potrebbe farsi per il rischio di ricorsi, interventi della magistratura, conseguenze penali di vario genere, ma preferisco riservare queste riflessioni ad un futuro approfondimento.
Ciò che mi preme evidenziare con forza, in questa sede, è che un insieme di provvedimenti straordinari ravvicinati nel tempo, per far fronte a una situazione certamente straordinaria, rischia di scardinare il sistema anziché semplificarlo, ben oltre le buone intenzioni.
Uno dei modi per impedire che ciò accada, e massimizzare l’impatto delle norme in termini di efficacia, è garantire una continua e pragmatica interlocuzione con le parti sociali sugli aspetti applicativi delle norme stesse, anche incardinando osservatori permanenti presso i ministeri di riferimento (che siano però di natura operativa, capaci di mettere a fuoco le criticità, proporre tempestivamente le soluzioni). Chiamarla concertazione porta alla memoria dinamiche archiviate nel passato.
Ma si pensi alla sostanza piuttosto che alla forma: vi sono solo vantaggi in un virtuoso e sano dialogo tra politica, amministrazione pubblica e parti sociali. Assiv lo chiede da tempo con forza al ministero dell’Interno, se non ora quando?