Contratto di espansione e decreto Sostegni bis: novità e fronti ancora aperti
di Michele Dalla Sega
Il decreto Sostegni bis, approvato dal Consiglio dei Ministri il 20 maggio, contiene una serie di importanti provvedimenti in materia di lavoro, nel segno della continuità, come dimostra l’ulteriore proroga del blocco dei licenziamenti, ma anche con l’introduzione di nuovi istituti, quali il contratto di rioccupazione.
Tra queste misure, nella bozza del decreto, emerge anche una rilevante novità su uno strumento introdotto nel nostro ordinamento nel 2019 per sostituire e rilanciare il precedente “contratto di solidarietà espansiva”, ma che solo negli ultimi mesi è diventato protagonista del dibattito tra governo e parti sociali. Si tratta del contratto di espansione e consiste in un istituto che le imprese possono attivare, in accordo con le organizzazioni sindacali, per supportare procedure di riorganizzazione e modifica dei processi aziendali. Sul piano pratico, nel contratto devono essere previsti una serie di interventi che comprendono la programmazione di un piano di assunzioni di lavoratori con contratto a tempo indeterminato (compreso il contratto di apprendistato professionalizzante), la realizzazione di un programma di formazione e riqualificazione professionale per il personale dell’azienda e, da ultimo, un piano di uscite anticipate per i lavoratori prossimi alla pensione o, in alternativa, un piano di riduzioni dell’orario di lavoro. Qualora siano presenti tali elementi e siano rispettate le procedure previste (in primis, la stipulazione in sede governativa con il Ministero del Lavoro e le organizzazioni sindacali), lo Stato concede specifici incentivi alle imprese coinvolte, mediante sgravi contributivi riferiti ai piani di prepensionamento e la concessione della cassa integrazione straordinaria a copertura delle ore di lavoro non prestate in caso di riduzioni orarie.
Gli obiettivi sfidanti dello strumento, che rimandano a processi di riorganizzazione delle aziende con al centro percorsi di ricambio generazionale e di rinnovo delle competenze degli organici, spiegano bene il successo, almeno sul piano “mediatico”, del contratto di espansione, che nell’ultimo periodo è entrato a far parte in maniera rilevante delle discussioni in materia di lavoro tra Governo, sindacati e associazioni datoriali. Si pensi alla richiesta, portata avanti in più sedi da Carlo Bonomi, di potenziare la misura, intervenendo sulla soglia minima dimensionale delle imprese prevista per poter accedere allo strumento. Per il Presidente di Confindustria, infatti, l’abbassamento della soglia di accesso da 1000 a 500 dipendenti (250 per quanto riguarda il piano di prepensionamento), introdotto con la Legge di Bilancio 2021, non era infatti ancora sufficiente al fine di garantire un’effettiva diffusione in più realtà aziendali dell’istituto. Così come, dall’altro lato, si è segnalata la presenza del contratto di espansione tra i punti principali presentati nella piattaforma unitaria in materia previdenziale di Cgil, Cisl e Uil, quale strumento utile “per governare la difficile fase che si aprirà con lo sblocco dei licenziamenti e per favorire il ricambio generazionale”.
Al di là della sua centralità nel dibattito, però, attualmente il contratto di espansione risulta ancora un istituto dalla diffusione limitata nella prassi, come dimostrano i pochi casi aziendali finora analizzati, che rimandano ad alcune grandi realtà del mercato italiano. I contratti di espansione sottoscritti con le organizzazioni sindacali da parte di Tim, Ericsson, Bricocenter e Eni, oltre a rappresentare un interessante esempio di come le astratte previsioni legislative vengono applicate sul piano concreto nei contesti d’impresa, dimostrano che fino ad ora solo realtà molto strutturate e con un ampio bacino occupazionale hanno saputo cogliere le opportunità della misura. Da qui la richiesta di associazioni datoriali e sindacati di ridurre sensibilmente il parametro occupazionale richiesto, nella convinzione che la modifica di questo elemento possa finalmente favorire una diffusione capillare della misura.
Sotto questo aspetto, con il decreto Sostegni-bis, il governo ha dimostrato di voler intervenire tempestivamente, dato che la soglia dimensionale per accedere al contratto di espansione, prevista attualmente dall’art. 41, c. 1-bis del D.Lgs. n. 148/2015, viene abbassata a 100 unità, senza operare distinzioni tra accordi che prevedono il prepensionamento dei lavoratori e altri che istituiscano riduzioni dell’orario di lavoro e con un conseguente aumento delle risorse annuali stanziate per finanziare la misura. Il “salto” quantitativo rispetto alla situazione precedente appare in maniera evidente, specialmente se confrontato col fatto che, prima della legge di Bilancio 2021, la norma faceva riferimento esclusivo alle aziende con più di 1000 dipendenti.
La novità introdotta ha quindi il merito di rimuovere un primo ostacolo in vista di una più ampia diffusione del contratto di espansione, almeno sul piano formale, per far sì che quest’ultimo non segua la parabola fallimentare del suo predecessore, ossia il contratto di solidarietà espansiva. Resta però aperta una questione, che nasce dallo studio dei casi finora presenti, e rimanda sia alle complesse procedure formali di implementazione dei processi di assunzione, formazione, prepensionamento e riduzione degli orari di lavoro, sia agli ingenti costi che le imprese, al di là degli incentivi pubblici che ricevono nell’ambito dell’operazione, sono tenute a sostenere per finanziarli. Basterà l’abbassamento di un requisito occupazionale per sciogliere nodi procedurali ed economici che, specialmente per le piccole e medie imprese, hanno più volte dimostrato di poter bloccare processi di rinnovamento e riorganizzazione? Aziende, sindacati e associazioni datoriali, nei prossimi mesi, hanno il complesso ma affascinante compito di smentire questo dubbio.
Fonte: ADAPT